In esclusiva sulla piattaforma in streaming Nexo+ il primo dicembre (Giornata Mondiale contro l’Aids nonché data di un’importante ricorrenza: i 40 anni dall’individuazione del virus) troverete il documentario “Positivə – 40 anni di HIV in Italia”, con la regia di Alessandro Redaelli, scritto da Elena Comoglio, Francesco Maddaloni e Ruggero Melis. Un viaggio in macchina verso il mare tra quattro sconosciuti, tutti under 40, tutti HIV+, per scoprire le loro vite e raccontare a volto e cuore scoperti cosa significhi avere l’HIV oggi, in un’epoca che vede possibile convivere con il virus e condurre vite normali ma che vede ancora le persone infette vittime di un enorme stigma sociale.
Per la prima volta in Italia senza censure su volti e voci, conosciamo una mamma milanese e un papà pistoiese, entrambi eterosessuali, una ragazza transgender e un ragazzo omosessuale e grazie a loro comprendiamo il gap di comunicazione che si è generato negli ultimi decenni e che ha portato un’intera generazione di giovani a conoscere poco o nulla di un virus che oggi colpisce oltre 130.000 italiani.
Ne abbiamo parlato con uno degli autori, Francesco Maddaloni, che compare anche in qualche scena del documentario con il proprio compagno e loro figlio.
Sembra quasi che ormai di HIV non si parli più, cosa ne pensi?
“La comunità gay ha avuto un impatto più forte con questo tema, è stata più coinvolta: all’inizio l’HIV era una questione di una determinata parte della società, era individuato come il virus dei tossicodipendenti e degli omosessuali, o comunque di chi aveva dei comportamenti sessualmente promiscui. E’ stato un tema che ha scioccamente riguardato una parte della popolazione minoritaria e considerata poco importante.”
Si è quindi trasformato in una stigma e forse si è perso tempo, dal punto vista medico e sociale…
“Scrivendo questo documentario mi sono reso conto che la percezione di questo virus è stata anche una storia di cattiva comunicazione: all’inzio faceva molta paura e sono state fatte delle campagne di tutela molto massive che facevano leva proprio su questa paura, basti pensare al famoso slogan “AIDS: se lo sconosci lo eviti”, che sembrava far riferimento proprio alle persone da evitare, che infatti venivano circondate da un alone viola. Tra l’altro quella campagna fu per il Ministero della Salute la più costosa in assoluto nel campo dell’informazione sanitaria. Dopo quegli anni non è stato detto più quasi nulla, nessuno ha più raccontato che le cose erano cambiate: quindi quelli della mia generazione (ndr. Francesco Maddaloni è del 1983) sono rimasti ancorati ad uno stigma fortissimo e i più giovani non sanno nulla.”
Come avete scelto ə quattro protagonistə del documentario, Gabriele, Simone, Daphne e Daria?
“Volevamo quattro storie diverse tra loro e che abbracciassero la totalità dell’identità sessuale, perché l’HIV riguarda tutti. Abbiamo fatto ricerca tramite contatti personali, associazioni, pagine Facebook di autoconforto e siamo arrivari a trovare proprio quello che volevamo: una mamma eterosessuale, un padre eterosessuale, un ragazzo gay e una ragazza transgender che ci hanno permesso di esplorare la dimensione di questo virus in contesti di vita molto diversi. Dopo aver individuato tante storie, abbiamo fatto un lavoro molto approfondito di pre-interviste e alla fine abbiamo selezionato loro perchè più convincenti. La storia più difficile da trovare è stata quella di una donna eterosessuale, perché le donne, pur essendo molto esposte al virus dell’HIV, sono vittime di un grande tabù e pregiudizio nel parlarne, perché una donna in Italia deve essere una madonna o una madre e quando è sieropositiva diventa una donna che ha commesso peccato con il proprio corpo, e quindi si deve vergognare. Trovare una donna che avesse voglia di raccontarsi a viso scoperto, interrompendo quella narrazione blerata con la voce modificata che spesso è stata utilizzata, non è stato semplice.”
Avete scelto di non raccontare la parte della vita in cui queste persone hanno contratto il virus: cosa vi ha guidati in questa decisione?
“E’ stata una scelta molto ragionata: volevamo interrompere la narrazione che è stata fatta finora sulle persone che convivono con HIV. Volevamo costruire una nuova memoria collettiva e per farlo dovevamo evitare la morbosa attenzione per il “come è stato contratto”, il senso di colpa, il sentirsi sbagliatə, il “copriti il viso”, “modifica la voce”, perché è bene che si resti nell’anonimato. Abbiamo cercato di superare quella pornografia del dolore che molto spesso si vede in certi contesti televisivi, per raccontare un aspetto più inedito delle persone sieropositive: qui non ci interessa capire il malessere, ma ci interessa capire in che modo queste storie sono arrivate ad essere risolte. Volevamo superare, e liberarci di una modalità antiquata di raccontare.”
Attraverso alcune interviste, avete creato una sorta di ponte tra i protagonisiti contemporanei e la storia di questo virus e delle persone che hanno lottato negli ultimi 40 anni da quando è stato scoperto. Come avete scelto gli ospiti da intervistare in studio?
“E’ stato un lavoro di ricostruzione e di spacchettamento della realtà dell’HIV sotto diversi punti di vista. In questi quarant’anni il virus si è insediato in diversi contesti della società: nella sanità, nella moda, nel mondo dello spettacolo, nei ricordi di artisti noti; ci sembrava perciò giusto coinvolgere persone che appartengono a contesti diversi ma che hanno un punto di vista molto chiaro su cos’è l’HIV. Quindi la comunicazione e la fotografia, con Oliviero Toscani, la memoria personale di una grande artista come Loredana Bertè, che ha condiviso con noi un pezzo della sua vita raccontando di un amico perso a causa dell’AIDS. C’è Marinella Zetti che è una volontaria della prima ora e che più di molti altri può raccontare cosa è successo sin dall’inizio; l’infettivologo Massimo Cernuschi, Rosaria Iardino, la ragazza baciata sulla bocca dall’immunologo Fernando Aiuti in una storica fotografia del ‘91 che ha cambiato la percezione dell’AIDS. Era necessario dare spazio ad una pluralità di voci perché volevamo creare un documentario che non fosse incentrato sulla nostalgia, sul dolore, sul pianto, ma che fosse un inno alla vita e avesse un linguaggio che colpisce positivamente chi lo guarda: si ride, ci si commuove, si prova rabbia.”
Secondo le ricerche che avete fatto per scrivere e girare questo documentario, cosa è venuto fuori rispetto a quello che i giovani di oggi conoscono del virus e della malattia?
“C’è molta ignoranza, di questa storia non si sa niente; per i ventenni di oggi è importante sapere che non si muore, ma in realtà quello che va spiegato è che l’HIV si deve evitare, anche perché prendere una terapia per tutta la via non è facile. Non sanno che chi era ventenne appena trenta anni fa doveva stendersi per la strada chiedendo dei farmaci salvavita che non venivano passati gratuitamente dallo Stato: il costo della terapia prima che diventasse gratuita nel 1996 era di un milione e duecentomila lire al mese, il che significava uno stipendio. A vent’anni se contraevi l’HIV o mangiavi o morivi, quindi o morivi o morivi. E quelle terapie non erano neanche così certe allora, ma erano una speranza. Ovviamente se i giovani non sanno nulla non è colpa loro, ma del sistema e anche della mia generazione che si è vergognata e nascosta. Questo documentario è rivolto a tutte le persone sierocoinvolte, e lo siamo tutti, perché sicuramente nella nostra vita c’è qualche sieropositivo di cui non sappiamo. I giovani meritano di avere degli strumenti per capire cosa succede e cosa è successo.”
Avete pensato ad una circuitazione scolastica del documentario?
“Sono molto orgoglioso di dirti di sì, e il 1 dicembre, grazie al Festival di Internazionale di Cinema Omosessuale, Transessuale e Questioning OMOVIES, “Positivə” arriverà per la prima volta in un liceo di Napoli.”
I ragazzi e le ragazze adesso hanno molte più possibilità di attingere a diverse fonti di informazioni, e proprio per questo l’attendibilità diventa fondamentale.
“Abbiamo un grande potenziale, internet avvicina tutto, ma bisogna tornare ad ascoltare gli esperti e non i tuttologi. E’ anche per questo che abbiamo fatto un lavoro di ricerca rigoroso sulle persone da coinvolgere nelle interviste in studio, perché volevamo trovare, tra volti noti e non noti, qualcuno che avesse davvero dato un contributo a questi quarant’anni di storia del virus.”
Quando Gabriele, Simone, Daphne e Daria hanno visto il documentario come hanno reagito, cosa vi hanno detto?
“Loro lo hanno visto tre giorni prima dell’anteprima in una proiezione privata: è stato molto emozionante. Gabriele non è riuscito a vedere il finale per la commozione, Daria ci teneva molto a portare avanti la questione della difficoltà del parto e quando ha visto che ce l’avevamo fatta, si è lasciata davvero andare. Daphne è una pantera e ha usato l’ironia per trasmettere le sue emozioni, mentre Simone è rimasto in silenzio. La moglie di Gabriele mi ha scritto: “aspettavamo questo documentario, ci abbiamo lavorato tanto e adesso che è finito mi sembra che tutti ci mancheremo l’un l’altro.” Le ho spiegato che non è finita perché ora è il momento di accompagnare questo progetto per mano fuori, nei festival, in giro per il mondo.”
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